
Fino ai 6 anni, alla “buca” ci andavo quasi tutti i giorni. Là ci stava il Cotonificio Ferrari e proprio in fondo alla grande fabbrica sul fiume abitavano i miei nonni.
Io e la mamma d’estate ci andavamo in bici o con il suo Garelli rosso ciliegia. Al passaggio a livello, dalla sua casetta tra fiori e galline ci salutava abitualmente la “caselanda”. Poi, oltre il ponte gobbo sulla seriola alta, imboccavamo la lunga discesa, che facevo sempre a occhi chiusi per non farci entrare i “moschini”. Infine, il sobbalzo sul ponticello in ferro della seriola bassa sanciva l’arrivo alla buca.
Oltre il cancello della fabbrica, la stradina che costeggiava il canale non aveva sponde, l’acqua d’estate arrivava fino al ciglio dell’asfalto e le robinie s’intrecciavano sopra di noi a formare un tetto verde.
In fondo a sinistra ecco finalmente la casa dei nonni.
All’asilo non ci sono praticamente andata e qui ho trascorso buona parte della mia infanzia.
Mio nonno Beppe era stato il guardiano della diga e lui del fiume sapeva tutto.
Mentre curava l’orto, scorrazzavo libera nel grande cortile. Giocavo con rametti, sassi, insetti o vecchi tubetti di cartone e rimasugli di filo recuperati sotto la tettoia del deposito. Sento ancora l’odore polveroso della fabbrica del cotone che si mescola a quello dolciastro delle more del gelso o a quello dei fiori collosi della paulonia.
Il cortile era la mia isola – delimitata a nord dalla grande diga, a ovest dall’Oglio e dal canalone, a est dalla seriola e a sud dalla casa dei nonni e dalla fabbrica.
Nel mio regno vigeva un solo divieto: “Lauretta non avvicinarti all’acqua! Che se ci cadi dentro il fiume ti porta via! Lo vedi come corre l’acqua? Lo vedi vero? Prometti di stare attenta. Attenta!”
Così, ogni volta che suonava la sirena per l’apertura delle paratie, dovevo supplicare la nonna che mi accompagnasse per mano a vedere lo spettacolo della cascate, oltre il recinto, nella zona a me vietata.
Tutti i miei familiari vivevano nel terrore che il fiume potesse portarmi via – così come aveva fatto 30 anni prima con Franchino, figlio della prozia, caduto a 6 anni dalla passerella di legno e mai più ritrovato.
Mio cugino Gabriele, più grande di me di 4 anni, non aveva invece nessun divieto.
Lui poteva avvicinarsi all’acqua, girovagare dove gli pareva e addirittura attraversare da solo la passerella!
Fatta di assicelle di legno e funi metalliche, la mitica passerella collegava il cotonificio alla sponda bergamasca del fiume. Era stretta meno di un metro e sospesa nel vuoto ad almeno 10 passi dall’acqua. Ci si camminava sopra ondeggiando e tra un’assicella e l’altra ci vedevi il vuoto.
A volte mancava un’asse intera, marcita e caduta nel fiume, e allora ad attraversarla ci si teneva forte alle corde con entrambe le mani.
“Se manca un’assicella, pedalo ancora più veloce! così il buco non lo sento” diceva Gabri – mentre io lo guardavo lanciarsi nelle sue pericolosissime traversate, terrorizzata e invidiosa.
La passerella esercitava su di me un fascino misterioso e irresistibile, così a volte, quando il nonno si allontanava un attimo, correvo sulle scalette di pietra dietro la casa, fino a non avere più fiato per raggiungerla. Col batticuore e le mani sudate e ben strette alle funi, mi sdraiavo a pancia in giù sulle assi di legno e con il naso infilato tra le fessure fissavo per qualche minuto sotto di me la superficie verde scintillare al sole.
Quando la diga a monte era chiusa, il fiume scorreva lento e a osservarlo da lì sopra non pareva per nulla cattivo come volevano farmi credere – anzi la sua vista mi acquietava col mondo e avrei quasi voluto tuffarmici dentro.
(Laura Dossi, palazzolese doc, nata alla “buca” e murasca adottiva)