
Ha un cognome straniero, Adriano, ma lui il fiume lo conosce da sempre.
Ed ha questi occhi che brillano quando mi racconta della prima volta che si è tuffato nel fiume, dal ponte.
L’estate ha il sapore aspro e suadente dell’Oglio, qui a Palazzolo.
E i ponti si riempiono di ragazzi.
Li vedi immobili a contemplare la superficie tremula dell’acqua e quasi ti convinci che resteranno così per sempre, marmorei nei loro corpi acerbi e minuti.
Ma poi all’improvviso diventano velocità, diventano urla, diventano schizzi di spuma leggera e scompaiono nel blu profondo.
Mi è capitato spesso, in questi miei anni palazzolesi, di osservare incantata il gesto antico dei ragazzi che si tuffano dal ponte, giù nel fiume.
E ogni volta sono rimasta a guardare con il rispetto e il silenzio di chi osserva da lontano riti che non sa, di chi non è nata qui, di chi non ha avuto in sorte di vivere l’adolescenza bella e selvaggia dei ragazzi del fiume.
Adriano è nato qui, anche se il suo è un cognome straniero.
Ha occhi brillanti mentre mi racconta di quella sua prima volta, quando il fiume per lui era richiamo e paura.
Voleva tuffarsi e insieme non voleva. Eppure sapeva di non potersi tirare indietro.
A dodici anni lanciarsi nel fiume è un rito di iniziazione, è crescita, è libertà, è potente senso di appartenenza a questa terra del fiume.
E devi trovare la forza e l’avventatezza di farlo, quel gesto.
Sorride quando mi sussurra che aveva paura ma non poteva avere paura. Allora ha smesso di pensare, ha fatto un passo indietro e si è dato una spinta fortissima.
Mentre saltava dal ponte, pregava di riuscire ad oltrepassare le rocce, pregava di non farsi male, pregava che quello non fosse il suo ultimo tuffo.
Lasciarsi andare nel vuoto, fendere l’acqua, scendere giù, nel profondo, è stato bellissimo, mi dice.
Per la prima volta ha visto il fiume da dentro e se ne è sentito parte.
Da allora non ha avuto più paura.
(Enza Verrocchi: profe di Adriano)