
Ogni volta che gironzolo per la bassa senza navigatore, giungo a destinazione per una strada sempre diversa.
La bassa è un labirinto piatto intessuto tra campi, vecchi filari di gelsi e boschetti di pioppi e robinie.
Quando penso d’essermi irrimediabilmente perduta, ecco che un dettaglio conosciuto mi ricolloca nel piano cartesiano.
E anche oggi è la solita storia… un attimo di panico e volià! Appare davanti ai miei occhi la mitica Locanda dell’Aquila Rossa.
Come poterla dimenticare? Qui ci venivo per le mie cenette romantiche. E anche allora mi perdevo nella campagna, in dolce compagnia… e la cosa – devo ammettere – aveva sempre un certo fascino.
Il piccolo borgo di Padernello era così tranquillo da sembrare disabitato.
Oggi invece c’è un bel fermento di gente che passeggia per la via principale. Parcheggiamo e decidiamo di accodarci a un gruppetto di turisti milanesi che, appena dietro l’angolo, ci svela un luogo sconosciuto e meraviglioso.
Il castello di Padernello si erge placido e la sua mole di mattoncini rossi emana al tramonto una luce calda e accogliente.
L’architettura pare integra e ben conservata: con il fossato colmo di acqua verdognola, le rane che gracidano, le torri angolari e il rivellino col ponte levatoio all’ingresso.
All’interno le stanze si snodano attorno a una grande corte quadrangolare.
La cucina conserva un grande tavolo e il tino per il mosto; mentre la sala da pranzo del Conte, perfettamente apparecchiata con fiori e vivande, è deliziosa – con questa luce soffusa che penetra dai vetri-cattedrale in forma di fondi di bottiglia.
Nella piccola biblioteca si possono consultare diversi volumi teatrali, comodamente sprofondati su un originale Chesterfield – che, come diversi altri arredi e suppellettili, è stato lasciato qui, in uso al pubblico e in conto-vendita, da un lungimirante antiquario bresciano.
Al primo piano, nel grande salone a losanghe bianche e rosse, una carrellata di opere ritrae la vita dei contadini della bassa, mente le camere conservano pregevoli soffitti a cassettoni lignei decorati. Infine il maestoso scalone barocco ci riconduce all’ingresso.
Sono già trascorsi 50 minuti di visita. La guida è stata molto carina e per nulla noiosa, tanto che anche le mie bimbe non le hanno mai staccato gli occhi di dosso.
Ma come sempre non ho resistito alla tentazione di abbandonare il gruppo per qualche istante e perdermi, da sola, alla ricerca di un sentore, di una pietra da tastare con mano, un lembo di centrino all’uncinetto da sollevare per verificarne la fattura.
Per un attimo, quando le voci giungevano ovattate e lontane, una luce forte è balenata nella specchiera; mi sono avvicinata e ho notato una scritta lieve tracciata a dito sulla sua superficie polverosa.
Si dice che il fantasma della piccola Biancamaria Martinengo ritorni qui ogni dieci anni, nella notte della sua morte. Vestita di bianco, tiene tra le mani tiene un libro d’oro con scritto il suo segreto e vaga tra le stanze del castello alla ricerca di qualcuno che lo possa finalmente ascoltare.
Una voce mi chiama, mi affretto a raggiungere gli altri nell’androne. Fuori il sole è già basso sotto l’orizzonte e saluto il castello con un solo pensiero:
e se con quella parola la Dama Bianca avesse voluto svelare proprio a me un pezzettino del suo segreto?