
Giuseppe Ungaretti in una bellissima poesia parla dei “suoi fiumi “, il Serchio che ha accompagnato la storia della sua famiglia, il Nilo che lo ha visto nascere e crescere, la Senna lungo la quale si è formato e l’Isonzo dove sta combattendo nel momento in cui scrive il testo.
Io ho avuto un solo fiume, l’Oglio che ha sempre esercitato su di me un segreto fascino, com’era inevitabile e come succede a ognuno per il paesaggio nel quale gli capita di aprire gli occhi e di scoprire con lo sguardo incantato del bambino. Lascia nella sua anima una traccia indelebile e nostalgica, sia che si tratti di fiume, lago, mare, montagna o altro. Succede persino con il paesaggio urbano.
Dalla finestra della casa in cui abitavo si poteva scorgere il fiume e io lo spiavo. A volte era verde, a volte color caffelatte quando le piogge abbondanti rimescolavano il fondo o trascinavano dei detriti, ma era sempre impetuoso. Di notte diventava nero e io avevo paura perchè qualcuno mi aveva detto che ne uscivano dei grossi serpenti che di giorno stavano acquattati sul fondo…
Ma in estate desideravo con tutte le mie forze immergermi in quell’acqua verde che mi rinfrescava e mi accarezzava deliziosamente, di giorno non correvo rischi, i serpenti dormivano…
Era una vera festa quando qualcuno mi portava al fiume, da sola non potevo andarci, ero troppo piccola, ma succedeva raramente perchè i grandi avevano sempre tante altre cose da fare. Una volta mi ci portò persino mia madre che era sempre indaffaratissima e non amava quel genere di passatempi, ma avemmo una sorta di incidente. Lungo la riva lei perse l’equilibrio e cadde in una specie di buca. Non se ne parlò più…
Un giorno però il fiume perse il suo aspetto e il suo vigore perchè l’acqua venne convogliata nel canale che lo affianca. Rimasero solo alcune pozze e vennero allo scoperto i suoi sassi levigati, strappati alla montagna, resi piatti e lisci dalla paziente, millenaria pressione dell’acqua. Da maestrina li raccoglievo anche per farli dipingere ai miei alunni.
E fu in una di quelle pozze che imparai a nuotare. In mancanza di piscine, di corsi di nuoto e di istruttori imparai da sola, ce la misi tutta e ci riuscii, volevo emulare i miei fratelli molto più grandi che avevano la mia stessa passione e nuotavano come pesci.
Poi ho nuotato al lago, in tante piscine e in tanti mari, ma in nessun altro fiume.
Oggi l’acqua scorre lentissima, quasi stagnante, è ancora il canale che le toglie il suo impeto. Le rive sono impraticabili, la natura se ne è riappropriata di prepotenza e del fiume si può solo avere una visone dall’alto. Lo si intravede camminando lungo un sentiero e attraverso i rami di alberi dall’altissimo fusto avvolti nell’edera, sotto i quali crescono spontanei delicati fiori e bacche di diversi colori. Ci sono ancora dei cespugli di more e qualcuno lungo quel sentiero porta a spasso i suoi cani.
Ma è bello ricordare com’era, con le donne che scendevano e risalivano con i cavalletti di legno sulle cui estremità ammucchiavano i panni da lavare, il tracciato ripido a scaletta che portava giù giù fino alla riva e di cui non è rimasto nulla, con i ragazzi festanti e chiassosi che si buttavano dagli alberi, dritti nell’acqua. Mia sorella, da un ponte, si tuffava anche nel canale, io non osavo tanto, avevo paura, preferivo sguazzare nelle pozze.
Dice il poeta:
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questa è la mia nostalgia
………
E a ciascuno le sue nostalgie e i suoi ricordi.
(Giuseppina Armici: donna di fiume)